In conformità con un’altra “legge”, altrettanto fondamentale nel campo dell’Esorcismo e secondo cui la ripetizione delle parole e degli atti rafforza la loro efficacia, il malato, “sputando” sulle briciole cadute nel corso del frizionamento e raccolte con cura (v. articolo precedente: “La magia a Babilonia (parte II)), trasmette loro in pari misura la malattia di cui soffre. L’operazione si compie al di fuori dello spazio socializzato, in piena steppa (EDIN in sumerico), sì che il male venga con maggior sicurezza tenuto lontano, non solo dal paziente, ma anche dagli altri uomini. Essa si volge nei pressi di un arbusto che germoglia soltanto nel deserto e a cui si attribuiva una virtù purificatrice. Vi si lasci il pane, ormai portatore del maleficio, e le bestiole selvatiche che verranno a divorarlo, spinte dalle divinità locali, faranno in questo modo entrare nel proprio corpo, portandola via insieme con sé, la malattia tolta al paziente. Ecco dunque l’espediente con cui gli dei, invocati alla fine, devono “guarire” il malato.
Nella medicina esorcistica soltanto le divinità agivano: l’esorcista non faceva che implorarle, mettendo in pratica un rituale tradizionale e ritenuto in grado di influenzare gli dei con un maggior grado di sicurezza. Finzioni, miti, “forze” incontrollabili; si trattava dunque di una terapeutica propriamente irrazionale. Nella medicina empirica l’operatore era il medico in persona, che esaminava il malato e decideva in merito al trattamento da applicare, che lui stesso aveva cura di preparare, scegliendo gli elementi da manipolare e i “semplici” per le loro proprietà naturali, che contribuivano a rallentare o ad arrestare l’azione o il progredire della malattia. Cause ed effetti erano dunque in un rapporto proporzionale e allo stesso livello: si trattava di una terapia razionale.
Nel campo dell’esorcismo, alcune malattie venivano definite correntemente non con termini popri, o con delle specie di descrizioni, del tipo “piaga con fuoriuscita di materia”, ma ricorrendo a nomi di divinità, di demoni o di altri agenti del mondo soprannaturale del male, che li avrebbero fatti scatenare. Gli esorcisti, all’origine di simili finzioni esplicative dello stato del paziente, dovevano prenderle alla lettera e senza dubbio ne tenevano il dovuto conto per la scelta del trattamento soprannaturale da applicare. È probabile che esse non fossero altro che designazioni di stati morbosi o di sindromi più o meno definite; per esempio, con “l’intervento di uno spetto” sembra venisse correntemente definito uno stato patologico relativo piuttosto a ciò che noi definiremmo “i nervi” o “lo psichismo”, anziché all’organismo propriamente detto.
Con alle spalle un numero considerevole di errori di copiatura, debitamente distribuiti nel tempo, la storia di un così complesso compendio di attività mediche tradizionali e magiche, in cui sono intervenuta diverse mani nell’arco di tanti secoli, ci sfugge.
Stesso motivo per cui, in altre occasioni, ho esplicitamente palesato la strumentalizzazione, se non l’inutilità, di tradurre capitoli o versi dell’Antico Testamento risalenti al 1008 d.C. quando, invece, ne esistono altri ancor più antichi (argomento trattato nel mio “Uomini e Dei della Terra”). Dicevamo, se potessimo ricostruire quell’attività medica tradizionale/magica, senza dubbio essa ci illuminerebbe sul motivo per cui delle tavolette del contenuto manifestamente derivante dall’ambito esorcistico abbiano fatto da cappello ad un’opera di natura medica. Quali siano state le circostanze che hanno presieduto a una simile aggiunta è, probabilmente, l’intento di fornire una visione delle due medicine spesso in qualche forma alleate tra loro.
Quanto ai nostri giorni, se considerassimo per un attimo da un lato il persistere del sentimento religioso e della fede in un mondo soprannaturale e dall’altro, in direzione diametralmente opposta, il successo riscosso da metodi di cura deliberatamente irrazionali, se non addirittura stravaganti sino al ridicolo, ebbene, si potrebbe forse affermare che, in fondo…
Dai tempi dell’antica Babilonia le cose non sono molto cambiate.
(cit. J. Bottéro, B. Russo)
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